La verità è che sono stanca.
Sono state settimane, che forse un po’ mi sembrano mesi, molto impegnative.
Probabilmente lo sono state per tant*; il post estate può essere davvero intenso tra lavori, responsabilità, impegni, inciampi, aspettative, inserimenti dei figli, ritmi sfasati.
Ho iniziato a scrivere questo nuovo capitolo di Comfort food mille volte, abbandonando tante bozze per le quali non sentivo entusiasmo.
Le spiegazioni di questa stanchezza sono tante, ma rivangare non serve a molto.
Bisogna invece saper riconoscere i campanelli di allarme di questa stanchezza anche detta stress e prendersene cura. Non aggiungo parole non competenti in merito ma vi invito a leggere l’ultima newsletter di Nina Gigante, Terracielo che in qualche modo parla sempre di come mi sento ed è preziosa come un abbraccio quando ne senti il bisogno.
Mi sento pesante, senza energie, affaticata, poco paziente.
Solitamente cucinare mi aiuta a staccare e rilassarmi; invece ho avuto la testa così affollata di pensieri da non riuscire mai a liberarla per pensare a cosa volessi mangiare e cosa avessi voglia di preparare.
Questi sono i momenti in cui comfort food diventa tutto ciò che ti viene donato o qualsiasi cosa non comporti tempo e impegno.
Apprezzo sempre trovare verdure già tagliate nel freezer, pronte per essere svuotate in una teglia. E’ qualcosa che faccio spesso, quando mi avanza un pezzo di zucca per esempio, quando sto per partire e in frigo ho un peperone e una melanzana che temo si sciupino nel tempo in cui sarò via. Taglio tutto a cubetti e metto in freezer, consapevole del momento in cui sarà salvifico trovarli.
Faccio anche dei piccoli sacchetti con qualche avanzo vegetale crudo da aggiungere a brodi improvvisati di miso e noodles: i nostri pasti più comuni quando ci troviamo in questi periodi di forte pressione e poco tempo.
Altrimenti ci sono i panini.
Panino è un concetto molto ampio che contiene in sé varie definizioni e interpretazioni.
Arrivata in Olanda ho scoperto che il tipico pranzo Dutch, in pausa al lavoro, ma anche a casa in famiglia, si compone di fette di pane generalmente nero con semi, aperte e farcite con ingredienti vari che vengono messi al centro del tavolo. Hummus di ceci, pomodori, formaggi, burro ovviamente, affettati, ma anche burro di arachidi, fettine di cetriolo crudo, salse asiatiche piccanti. Ne mangi generalmente due o tre a pasto. Tutte uguali o una diversa dall’altra, a seconda dei gusti. Posizioni gli ingredienti, non chiudi il panino con una seconda fetta di pane, ma lo tieni invece aperto, sollevandolo con una mano come si farebbe con una fetta di pane con burro e marmellata.
Spesso l’ultima fetta del pasto, per bambini e adulti, è dolce: burro e marmellata, o il più celebre burro e hageslag (codette di cioccolata, puur=fondente o melk=al latte). Inizialmente fa sorridere vedere manager di studi e aziende importanti sbrodolarsi addosso pezzetti di cioccolata; poi inizi a pensare come loro e in fondo ti dici “perché no”.
Non so perchè mi abbia stupito così tanto inizialmente il fatto che le fette di pane farcito venissero lasciate aperte. Del resto si fa così anche in Spagna con il pan con tomate (e jamon all’occorrenza); tra latro una delle mie colazioni preferite al mondo.
I panini a casa mia, invece, li ho sempre chiusi.
E’ un comfort food a cui sono molto legata. Quando ero piccola, con i miei genitori ogni tanto si mangiavano panini a cena: io e mio fratello li chiamavamo panini caldi, li tostavamo nella piastra e li adoravamo. Con il tempo abbiamo affinato le nostre tecniche di tostatura e abbinamenti. Succedeva quando si faceva tardi, quando per qualche motivo particolare i ritmi erano diversi dal normale, o quando c’era una partita di tennis imperdibile da guardare sul divano.
Sicuramente era il cibo più gettonato quando eravamo in viaggio in camper. Non sporcano stoviglie, se non un paio di coltelli e un tagliere e sono abbastanza veloci da preparare. Partivamo per due, spesso tre settimane, quasi sempre al nord. Io, mio fratello Andrea, mia mamma e mio papà. Queste vacanze sono tra i miei ricordi più cari d’infanzia; forse potrei dire che gran parte della mia curiosità e capacità di viaggiare e conoscere posti nuovi si siano formate proprio durante quelle esperienze. Ho foto di famiglia incappucciati da testa a piedi a visitare paesini nordici di ogni tipo spesso sotto la pioggia ed esplorare spiagge ventosissime.
Tra i meravigliosi luoghi che visitavamo, i musei, le chiese, i paesini, i paesaggi a cui non ero abituata, il vento e l’oceano, ricordo con un sorriso divertito i tour nei supermercati. Negli anni 90 la globalizzazione aveva un impatto molto meno evidente di ciò che conosciamo adesso, per cui un supermercato in Danimarca, ma anche solo in Francia, era molto diverso da quello che è oggi, e soprattutto da quelli italiani del tempo. Si trovavano davvero prodotti a noi sconosciuti, e sicuramente si faceva un po’ di fatica ad individuare il corrispondente dei propri generi di conforto; era una rappresentazione abbastanza fedele delle abitudini alimentari di un luogo e lo trovavo immensamente affascinante. A volte ci lanciavamo in sperimentazioni del tutto inconsapevoli di prodotti ignoti. Adoravo quella sensazione di assaggiare qualcosa di mai provato prima; lo percepivo come una sorta di test gastronomico.
A volte usavamo proprio queste nuove scoperte, che spesso si presentavano in forma di qualche pesce atlantico affumicato o speziato, come base dei nostri panini.
Quando sono partita per uno scambio culturale e linguistico in Irlanda, sotto alle finestre dell’aula dove si tenevano le lezioni di inglese proprio in Grafton Street a Dublino, c’era una bakery francese; così diceva l’insegna. Vendevano, oltre al pane fresco, baguette farcite, come quelle che in effetti avrei imparato a conoscere anni dopo a Parigi.
Io prendevo sempre la stessa: caprino, pomodori e pesto. Dopo averla assaggiata l’avevo decretata la migliore di tutte. Adoravo quel sapore di pesto, messo lì dento ad un panino in combinazione con il caprino. All’epoca lo trovai una cosa insolita, ma mi fece intuire come le frontiere del pane farcito potessero essere infinite.
Diventò una specie di rituale, quando studiavo a Venezia, il panino alle zattere in pausa pranzo; che poi spesso finiva per non essere più una semplice pausa ma un pomeriggio al sole troppo bello per essere interrotto e tornare in aula.
Andavamo al Billa lì vicino. Si sceglieva il pane, di solito una ciabatta dalle dimensioni importati, croccante fuori e morbida dentro. Poi sceglievo l’affettato, generalmente abbinato a dello stracchino spalmabile - per questo giravo sempre con un pacchetto di coltelli di plastica nella borsa - e infine al banco gastronomia il tocco vizioso: peperoni sott’olio, oppure carciofi, a volte melanzane all’aglio e peperoncino piccante. Quei panini erano eccezionali, li gustavo con voracità fino all’ultima briciola.
Adesso questa pratica sarebbe assolutamente impossibile da perpetrare per via dei gabbiani estremamente aggressivi e attaccano chiunque brandisca del cibo tra le mani. Me ne dispiaccio particolarmente per gli studenti, che avranno di certo trovato delle nuove scappatoie per regalarsi pranzi regali a pochi soldi.
Una delle mie coinquiline di quei tempi, Alessia, mi condivise la sua farcia preferita dei suoi comfort panini: tonno, mais tutto ovviamente in scatola (mettetevi nei panni di due studenti fuorisede nei primi anni duemila) e formaggio. Combinazione del tutto inusuale, ma che mi aveva convinta. Non la ritento forse da allora e non sono certa potrei dare lo stesso giudizio adesso.
Ho sempre avuto la percezione che mangiare un panino buono e ben pensato in un contesto paesaggistico particolare sia uno dei lussi più grandi di cui si possa godere. Perché certo andare a scovare un ristorante ricercato è parte dell’esperienza del viaggio, ma spesso, per quanto mi riguarda, il sole e la vista lo superano di gran lunga. Conservo ricordi di pranzi cinque stelle di fronte ai paesaggi lunari della Cappadocia, appoggiata agli scogli con l’Oceano davanti, sulla panchina di una piazzetta delle cinque terre col rumore del mare in sottofondo e il profumo di macchia mediterranea nel naso, da uno dei punti panoramici della costiera Amalfitana, dalla cima di una piramide Maya in Messico, con gli occhi su Manhattan. Ed è vero che l’esperienza culinaria non è paragonabile, ma se avete provato pane humus di ceci piccante, verdure al forno con limone, qualche fogliolina di rucola con una vista mozzafiato e il sole in faccia, sapete anche voi quanto sia impareggiabilmente buono.
I panini si sono ad un certo punto trasformati in piadine. Credo sia stato Luca ad instillare questo cambio di direzione (temporaneo, comunque, ci tengo a dirlo). Ci siamo iniziati a frequentare in università. Venezia era un mondo sospeso al tempo, da studenti ci sembrava la città fosse assolutamente nostra. Era più vuota di adesso, decisamente meno costosa e profondamente libera. Racchiudeva nei contorni della laguna storie diverse che sembravano quasi estranee quando le si incrociava fuori da quelle calli e quei canali. Mi ricordo le prime volte che ci siamo visti fuori da Venezia, nelle nostre città di origine, era tutto molto strano. Ci ho messo un po’ di tempo a sovrapporre le immagini della persona che conoscevo in laguna con le case, i luoghi, le persone di cui quella stessa persona si circondava fuori da Venezia.
Quando a tarda notte rientravamo nella casa dei suoi genitori, Luca mi preparava una piadina che ci dividevamo prima di andare a letto. Me la ricordo come la più buona del mondo. Il segreto diceva lui, era il doppio formaggio, generalmente taleggio e asiago, che si sciolgono in modi diversi e i cui sapori si amalgamano alla perfezione.
Abbiamo sempre dedicato una particolare cura e attenzione alla preparazione di questi pranzi portatili, anche se altrettante volte sono messi nella categoria dei pasti veloci e senza impegno. E infatti, in queste settimane faticose ci siamo trovati più’ volte a guardarci e dirci: facciamo panini? A volte erano Dutch style, altre volte degli svuota-frigo decisamente poco gourmet; e per di più senza nessuna vista mozzafiato.
I bambini non mangiano panini chiusi, preferiscono tutti gli ingredienti separati: un pezzo di formaggio, un po di pane, a volte del prosciutto cotto. Non voglio che diventi uno sfogo di sensi di colpa materni per cene frettolose, ma sicuramente in alcuni momenti questa stanchezza riflessa anche a tavola ha accentuato la percezione della mancanza di energia. I pasti in famiglia sono invece un momento che amo molto, nonostante la confusione, le manate di sugo sulla tovaglia, le magliette lerce e il cibo che finisce per terra. Sono il momento in cui la giornata lavorativa è finita e ci si gode la compagnia reciproca, si parla, si ride, a volte meno, ma in ogni caso ci si rende conto della fortuna incommensurabile di essere lì assieme a condividere un pasto che abbiamo la fortuna e il privilegio di poterci permettere.
La verità è che oltre che stanca, sono arrabbiata. Sono arrabbiata per tutte le cose che non funzionano, per le ingiustizie, per le atrocità di questo mondo per le quali non ho le parole giuste e mi sento sempre impotente e troppe volte inadeguata. Nei confronti di tutto quello che succede dentro e fuori dai nostri confini il mio senso di stanchezza non è niente, eppure forse è alimentato da tutto quello; fosse solo anche per il senso di inadeguatezza che provo nel non protestare abbastanza, nel non farmi sentire abbastanza, nel non esprimere abbastanza dissenso.
Purtroppo la realtà è che spesso non ne sono capace. Non mi sento adeguatamente informata e pertinente.
Vorrei che ci fosse un modo semplice per fare di più, come un panino salva cena.
Purtroppo non è così.
Sicuramente rendersi conto di un proprio limite e di una difficoltà percepita è il primo passo per affrontare la cosa. Per fare meglio; in tutti i sensi.
Ci sto provando.
A presto,
Valentina
P.S.
In questa sensazione di paralisi che molti di noi stanno vivendo, ci sono delle iniziative che si sono attivate per fare piccoli ma grandi passi. Ne voglio condividere alcune:
COCOMERO e’ un ebook di cucina d’ispirazione palestinese: 40 ricette interpretate da alcune conosciute food blogger e attiviste, con foto sfiziosissime e una splendida grafica. Si riceve in pdf a fronte di una donazione che andra’ interamente ad aiutare alcune famiglie palestinesi presentate nel sito. Il procedimento su cosa e come fare e’ spiegato in modo chiaro nel sito che vi lascio QUI . Io ho fatto la mia donazione e ricevuto il mio ebook. “TANTE GOCCE FANNO IL MARE”.
L’8 novembre avro’ l’onore di ospitare all’interno del progetto CULINARIA Silvia Chiarantini, co autrice di Pop-Palestine che dialoghera’ con Elena Guerra giornalista e co autrice di ricette migranti. Parleremo del cibo come identita’ culturale da preservare, di cibo come base di relazioni sociali, come questione identitaria e umana. Sara’ un incontro toccante e profondo. Come sempre alla libreria Mutty a Castiglione delle Stiviere.
A Eindhoven nei Paesi Bassi e’ appena finita la Dutch Design Week. Al centro della celebre Strijp S l’area centrale dell’evento, e’ stato inaugurato un tempio per la pace “The temple of peace”. La struttura si impone come monito a tutti i passanti ed e’ composta da 80 bandiere disegnate e realizzate da alcuni designer con l’aiuto di rifugiati e richiedenti asilo. Dopo la Dutch Design Week viaggera’ in Europa e mi sembra un modo bellissimo per ricordare a tutti di ambire e chiedere la pace sopra ad ogni cosa.
Grazie Valentina. Tante gocce fanno il mare, grazie per essere una di quelle.
Condivido questa stanchezza importante, e l’amore per i panini ben fatti. Livia ha mangiato il suo primo panino settimana scorsa, fino ad allora anche per lei gli ingredienti erano tutti separati. Chissà che non sia l’inizio di un periodo più semplice, per lo meno a tavola!