C’era il tempo delle mele, quello degli asparagi, il momento tanto atteso in cui maturavano le ciliegie. Erano pronte quando finiva la scuola; nella campagna di mio nonno, in fondo, vicino al muretto che costeggiava una piccola roggia, c’erano due ciliegi. Uno era sempre più carico di frutti dell’altro e salendo in piedi sul muretto di sassi arrivavo anche ai rami un po’ più alti. In poco tempo si riempivano fino all’orlo cestini di turgide e grosse ciliegie color rosso rubino. Le mangiavo per giorni poi, sulla terrazza dei miei nonni, sputando i noccioli per terra. Spesso tenevo in bocca un nocciolo così a lungo da farlo diventare lucido e pulito.
Nello stesso angolo di campagna c’erano anche due albicocchi e un pesco.
Avete presente una pesca che sa di pesca?
Parlo di quelle dolci, saporite, mature al punto che il succo mi correva fino ai gomiti mentre le divoravo a piedi nudi nel giardino. Ho sempre avuto una passione particolare per le pesche, per il loro colore, le sfumature che portano sulla buccia e quelle diverse che si trovano all’interno; negli anni ho coltivato segretamente una piccola ossessione: pulire il nocciolo con uno stuzzicadenti a pesca finita. Il piacere che mi procurava quell’attività paziente me lo regalavo con gioia, lontano da sguardi commentatori e ridicolizzanti di quell’attività assolutamente superflua.
Da quanto tempo non mangiate una pesca così buona? Mi sembra sia così difficile trovarne di questi tempi.
Ricordo nitidamente i pranzi ristoratori dalla calura esterna, nella cucina degli altri miei nonni, al lago di Garda. Passavo lì molte settimane, dalla fine della scuola, fino alle vacanza con i miei genitori.
Nella parte nord del lago di Garda tira quasi costantemente una brezza deliziosa, talvolta vento insistente che forse non a tutti piace, ma regala una frescura molto ambita nei momenti più caldi. Le mie giornate si dividevano tra i tuffi dalla piattaforma poco al largo della spiaggia e le corse a piedi nudi in giardino con mio fratello e i miei cugini.
A pranzo stavamo da mia nonna. Sulla tavola non mancava mai una ciotola di pomodori dell’orto tagliati grossolanamente e conditi con olio sale e un po’ di aceto di vino bianco. Adoravo fin da bambina il sughetto che rimane in fondo alla ciotola vuota; forse, in assoluto, la mia scarpetta preferita. La bontà di quei frutti rossi tanto attesa quanto il caldo che ti fa giocare in costume da mattina a sera, anche da bambina, mi sbalordiva. Erano frutti o verdure? Chiedevo. La dolcezza mi confondeva.
Poi dall’orto, che mio nonno Silvio curava con dedizione, arrivavano i fagiolini verdi, teneri e croccanti allo stesso tempo; conditi semplicemente con un filo di olio d’oliva e un pizzico di sale: divini! E i peperoni, le melanzane, le zucchine e i loro fiori, l’insalata fresca, le cipolle. Era l’occasione in cui quella striscia di terra che costeggiava la casa, dava i frutti della meticolosa cura delle mani che l’avevano lavorata.
Ma il momento che ho sempre atteso tutto l’anno era, oltre al giorno del mio compleanno s’intende, l’arrivo dell’anguria; che poi, casualità o forse no, arrivano esattamente nello stesso momento!
C’è qualcosa di più croccante e fresco di un’anguria appena aperta in un tardo pomeriggio d’estate?
Devo ammettere con orgoglio di figlia, che mio papà è sempre stato un maestro nella scelta dell’anguria. Le batte cercando il suono sordo e profondo che hanno solo quelle mature al punto giusto. Mi ha sempre affascinato vederlo cercare il cocomero eletto, lo sguardo convinto quando lo sentiva e si dirigeva alla cassa. Arrivati a casa lo metteva in ammollo in una grande tinozza di acqua fredda. Che meraviglia vederlo galleggiare, così grosso e pesante com’è.
Vicino alla casa della mia famiglia, nelle calde giornate d’estate, un anguriaro prendeva possesso della fontana del paese e i grandi cocomeri in vendita galleggiavano tutti vicini nell’acqua che sgorgava gelida. Quell’immagine mi affascinava e mi divertiva allo stesso tempo: era unico perché rappresentava un momento preciso ed effimero, quelle poche settimane di caldo in un anno in cui la scuola non c’è e le angurie sono buone; e mi faceva sorridere perché quell’uso improprio dell’oggetto di arredo urbano - la fontana - mi sembrava speciale come le vacanze.
A Venezia, “la stagione delle angurie” si apriva, per tradizione, dopo la festa del Redentore che avviene ogni terza domenica di luglio; è quello il momento in cui, finalmente, il grande frutto della condivisione inizia ad essere buono.
C’era il tempo delle nespole, frutti troppo poco in voga per i miei gusti; le prendevo direttamente dall’albero, sporgendomi dal balcone di casa. Il gusto è dolce, la buccia leggermente acidula; ma la cosa che più di tutte preferisco, è la sensazione di trovare quei grossi noccioli in bocca. Quanti ne ho pelati da bambina!
Qualche anno fa ho scoperto da Mariangela Russo (@accadeintavola) che in Basilicata, e forse non solo, si produce un liquore con i noccioli di nespola, il nespolino, appunto. Non l’ho ancora provato a fare, in effetti quell’albero di nespole non c’è più fuori dal mio balcone.
Ognuno di questi rituali era un comfort food, fugace ma che si ripresentava puntuale, ogni anno.
Penso a queste immagini con un pizzico di nostalgia, non tanto per un tempo che è passato, ma più per quella magica attesa che non esiste più. Erano momenti e gusti speciali proprio perché si attendevano tanto e duravano poco; sono rimasti così impressi nella mia testa al punto di sovrapporre episodi e sapori in un’unica immagine sfocata.
In una delle recenti newsletter di Jul’s Kitchen - che leggo sempre con piacere perché mi riporta ogni volta con lo sguardo ai paesaggi toscani che mi hanno fatto da orizzonte un anno fa - parla proprio del legame tra cibo e ricordi.
Mangiare seguendo il ritmo delle stagioni crea e rafforza ricordi, sentimenti di attesa e gratitudine.
Come si può apprezzare la prima fetta di melone dolce e profumato dell’estate se è disponibile tutto l'anno? Come si potrebbero creare ricordi che durano tutta la vita se si potessero raccogliere le more da un contenitore di plastica al supermercato in qualsiasi momento? In Toscana le more hanno una stagione fugace, compaiono alla fine di agosto, quando si sta per tornare a scuola. Quelle lunghe giornate di fine estate sono ancora piene di ricordi di api ronzanti tra i rovi, braccia graffiate, cesti pesanti, sorrisi neri come la pece e l'odore della marmellata di more che borbotta sul fornello la mattina presto.
A fine estate, prima di ricominciare la scuola, da ragazzini si andava a vendemmiare, per raccogliere qualche soldo; i primi lavoretti. Non è un’attività particolarmente piacevole nonostante sia spesso dipinta in modo molto romantico e pittoresco: la pergola trentina ti fa da tetto sopra la testa e tu te ne stai con la testa e le braccia all’insù per ore, con il succo degli acini tagliati che cola lungo le braccia e rende tutto appiccicoso. Eppure alla fine si rivela un momento gioioso, le chiacchiere mentre si avanza lungo il filare, la pausa a metà mattina con biscotti e aranciata, i signori di una certa età con un bicchiere di vino. Poi il pranzo: panini con il salame a fette grosse, cedrata e il caffè per finire, rigorosamente nel thermos.
Mi ricordo con nitidezza di dettaglio quando, con i miei genitori, andavo a raccogliere castagne nel bosco di mio nonno. Gli alberi erano un incendio di tinte rosse e arancioni, il sole ancora caldo, le foglie secche che scricchiolavano sotto i piedi, Che rumore stupendo! Cercare i ricci caduti, porre una piccola pressione tra i piedi per aprire la spaccatura e far saltare fuori le castagne luccicanti, aiutata da un bastoncino.
Era un rituale che si ripeteva per due, massimo tre weekend di fine autunno, poi quell’attività fugace svaniva per lasciare spazio ad altre peculiarità stagionali.
Ad ogni stagione i suoi frutti, ad ogni momento la sua cerimonia.
Il comfort lo si trovava proprio in quella ripetitività dilatata nel tempo; riscoprendo un anno dopo lo stesso sapore perfetto che ci ricordavamo. Anzi, molte volte, ancora più buono!
Non mi piace fare la parte di quella che critica i tempi attuali, eppure nella perenne disponibilità che riscontro oggi, ho l’impressione ci sia un immenso appiattimento. Trovando tutto sempre facciamo fatica a coltivare l’aspettativa di qualcosa, ad apprezzarne il valore quando c’è e a sentirne la mancanza quando passa il momento. Quell’assenza è fondamentale per creare il desiderio necessario al piacere di quel primo morso, quando si chiudono gli occhi, il sorriso si distende e ci si lascia andare in un sommesso mugugno di piacere. Mmm che buono!
Badate bene, non si tratta esclusivamente di una questione romantica: quest’estensione dei tempi di accessibilità orticola è in realtà un segno di profondo distacco dai cicli naturali. E’ una forzatura agricola che si sviluppa nella maggior parte dei casi in serra e che porta con se conseguenze gravi e, talvolta, drammatiche: impoverimento dei suoli, ricorso a tecniche e sostanze profondamente innaturali e dannose, oltre che ad un importante perdita di gusto. Troppo spesso mi trovo a mangiare verdure senza sapore, frutta che rievoca vagamente quella che ricordo.
Trovo abbastanza assurdo che sempre più persone si appassionino al mondo dell’alta cucina, si professino “foodies”, spendano sempre più soldi nell’uscire a cena, ma non sappiano dire quando maturano le pere, in quale stagione si trovino i funghi cantarelli e non abbiano più coscienza del sapore di una buona pesca.
Nel meraviglioso libro autobiografico Con tutti i miei sensi di Alice Waters, la cuoca rivoluzionaria americana, c’è un passaggio che amo molto; è quando lei parla della ricetta perfetta che dovrebbe essere più o meno così:
Cogli dei fichi perfettamente maturi in agosto, disponili in un piatto e mangiali.
Stamattina tra i banchi del mercato c’era un po di tutto: piselli, fagioli borlotti freschi, fragole, asparagi e meloni, angurie, pesche albicocche, perfino fichi. Certo, provengono da luoghi diversi, un po’ da tutto il mondo, per garantirci di trovare tutto quello che desideriamo. Del resto è arrivato il caldo e allora vogliamo tutta la frutta estiva già disponibile. Non è tanto la provenienza diffusa a farmi storcere il naso, ma piuttosto il gusto di quei prodotti che per dovere professionale mi sono imposta di assaggiare.
Sulla questione locale ho iniziato a pormi delle domande, fomentate da un articolo molto interessante di un progetto che ho scoperto non troppo tempo fa che mi ha letteralmente sbalordito (in positivo, se non fosse chiaro). Natoora è un’organizzazione, presente ad oggi a Londra, New York, Miami, Parigi, Malmo, Copenaghen e Melbourne, che ha elevato il gusto a principale criterio di valutazione e quindi di scelta di un ortaggio. Per fare questo, ricerca in tutto il mondo produttori che lavorino in modo pulito e naturale e che producano quindi prodotti Buoni (si, con la B maiuscola). Vanno a conoscere i produttori di persona, assaggiano i frutti direttamente dalle piante e poi li spediscono ai loro clienti. Certo, la questione dell’inquinamento dei trasporti direte voi; vero. Ma volete mettere la spinta e l’incentivo per questi agricoltori illuminati e coraggiosi di resistere ad un sistema commerciale che li opprime e continuare a credere nel loro sogno buono, pulito e giusto? - per citare Slow Food -.
Io credo, anzi ne sono profondamente convinta, che il cambiamento debba partire dal basso, da noi, dalle nostre scelte, dal motivare sempre più aziende agricole a prendere una strada consapevole che di conseguenza darà prodotti sempre più buoni; dal non accontentarsi dei sapori mediocri e cercare quelli eccellenti propri di un frutto maturato al sole. Di scegliere di promuovere la biodiversità, sempre, scoprendo nuove varietà, provando ad avventurarsi anche in ortaggi che non conosciamo.
Qualcuno, in un messaggio mi ha chiesto come si fa a reperire questi prodotti se non abbiamo a portata di mano una soluzione di acquisto? E’ una domanda da un milione di dollari per la quale al momento non ho ancora una risposta semplice e generalizzata. Ci sto rimuginando da tempo ormai, spero di riuscire a trovare presto una soluzione da poter raccontare e condividere.
Nel frattempo, aprite gli occhi, e cercate qualcuno attorno a voi che la pensi allo stesso modo.
A presto,
Valentina
Bellissimo racconto, cara Valentina, in cui ritrovo tanti ricordi della mia infanzia e giovinezza anche se io sono mooolto più grande di te ma evidentemente siamo entrambe cresciute in realtà di campagna che ci hanno fatto conoscere ed amare il cibo appena colto....😘
Con questa newsletter mi hai commossa Valentina. Sarà che in questo momento percepisco la stagionalità come un privilegio sempre più a rischio. Sono tre anni che non riesco a raccogliere una sola ciliegia dal mio albero, le fragole sono state così poche che quasi le potevo contare sulle dita delle mani. E tutto per via dei cambiamenti climatici che ancora fatichiamo a chiamare come tali…non mi rallegrano i banchi carichi di ogni di ben di dio in qualsiasi stagione, non lo hanno mai fatto, ora più che mai, ma ti ringrazio per averne parlato in questo modo così gentile