Amaro è il sapore che rimane in bocca dopo aver agganciato l’ennesima telefonata con l’impiegata del caaf che mi sta aiutando a sbloccare una stupida situazione di stallo nel rilascio dei contributi INPS. Avrei voglia di urlare e incazzarmi con la prima persona utile mi capiti a tiro, ma la buona educazione o meglio, il pudore sociale, mi impediscono di farlo e allora deglutisco il mio boccone. E taccio. Fino alla prossima telefonata.
Amaro è il sapore che mi lascia in bocca questa burocrazia complessa e poco limpida, capace di nascondere abominevoli esempi di corruzione e spreco, ma che diventa puntigliosa su dettagli assolutamente irrilevanti, nei confronti di chi, come me, non conta nulla. Sarà che vengo da 15 anni di burocrazia in una delle lingue meno orecchiabili d’Europa, ma facile, lineare, trasparente e, sopra ad ogni cosa EFFICIENTE, e mi fa ancora più imbestialire che qui sia anni luce dall’essere anche solo vagamente così.
Mi rendo conto solo ora in modo lampante di aver vissuto gli ultimi anni in una bolla di privilegio assoluto che non mi ha fatto mai sentire il sapore dell’inefficienza amministrativa. Sembra fantascienza, lo so, eppure esiste.
Amaro è il sapore che ho sentito mentre pedalavo forte in bicicletta con il vento contro, come di regola, appena uscita dall’ufficio dove mi avevano comunicato che il mio contratto non sarebbe stato rinnovato. Piovigginava, ma non con i goccioloni come conosciamo qui in Italia, e così le lacrime non si confondevano con la pioggia, erano ben visibili sulle guance. Spesso quando piove in paesi come l’Olanda, l’acqua è nebulizzata. Ti sembra di non sentirla, ma pedalando forte ti ritrovi completamente bagnato, come se quelle minuscole goccioline di acqua quasi impercettibili rimanessero impigliate al tuo corpo diventando tante e pesanti. Lavoravo da tre anni in quello studio, avevo iniziato con un internship che mi aveva fatto fare le valige una settimana dopo essermi laureata, e poi ero cresciuta, rinnovando ad ogni contratto la prospettiva di stare in quel paese dove, sì, pioveva troppo, ma era anche così meravigliosamente variopinto e pieno di energia. Sapevo già da un po’ che non sarebbe stato il mio posto a lungo, il lavoro non mi faceva impazzire, spesso mi sentivo destinata ad altro mentre progettavo gli allestimenti di alcuni dei musei più grandi d’Europa.
E’ una sensazione strana quella di non sentirsi al posto giusto, quando sulla carta non dovresti desiderare di essere da nessun’altra parte.
Eppure quando dopo tre anni, ti senti dire che, per problemi di economia dello studio, non ci sarà la possibilità di un rinnovo contrattuale, né per te né per gli altri 5 che avevano iniziato con te, ti senti ferita, umiliata, all’improvviso disperata di perdere il tuo posto; nonostante sapessi che se non lo avessero fatto loro, avrei messo fine io a quella collaborazione.
Ma l’avevano fatto loro.
E allora pedalavo veloce verso casa, piangendo sotto la pioggia e controvento sentendo solo un amaro in bocca che non riuscivo in alcun modo ad addolcire.
Del resto, amaro è il gusto della delusione, della sconfitta, è il sapore che ti lascia un’aspettativa non avverata.
Amaro è anche il sapore che, un boccone dopo l’altro, sentivo finendo una cena che sarebbe dovuta essere per due invece mi sono trovata a mangiare da sola. Sardine con pangrattato scorza d’arancia e uvetta al forno (simili alle celebri sarde alla beccafico siciliane, ma non arrotolate), insalata di finocchi, nocciole e bergamotto, crostoni con baccalà mantecato, una delle mie cose preferite in assoluto. Più mi compiacevo per quello che avevo cucinato più mi montava la rabbia per quella serata che non sarebbe dovuta andare così. Era tutto buonissimo per giunta. Amara consolazione.
Perché attribuiamo all’amaro solo emozioni negative?
Amaro è un gusto vero e proprio, che se dovessi analizzare dal punto di vista culinario, mi piace pure tanto! E’ il sapore preponderante delle cime di rapa, dei radicchi, fiori d’inverno, è il sentore dei carciofi, dei cardi, delle cicorie, di molte erbe aromatiche, della buccia degli agrumi che, se potessi, grattugerei ovunque. Amaro è il caffè, è il cioccolato nero, amaro è il te, perfino il miele può avere un retrogusto amaro.
E allora perché questa associazione allegorica così poco fortunata?
Massimo Montanari, uno dei più grandi storici e teorici del cibo italiano, sostiene che questa associazione derivi dal fatto che il gusto dell’amaro abbia una palese matrice contadina. Perché amare sono le erbe che nel tempo abbiamo imparato ad usare in cucina, che i contadini portavano a tavola, spesso perché non c’era altro da mangiare. Sapore della fatica, dei tempi magri di carestia, sapore di terra e sudore per chi non poteva permettersi altro.
Nel suo ultimo libro che si chiama, appunto, Amaro, fa un interessantissimo excursus storico sulla presenza delle verdure a tavola, sul loro posizionamento nei menu e sul loro sapore nella storia, a partire dal Medioevo.
“Per contadini e contadine la frequentazione del mondo vegetale (dunque del gusto amaro) era un costume quotidiano, che non implicava necessariamente uno stato di necessità dettato dalla fame ma piuttosto un atteggiamento vigile, attento a mettere a frutto ogni risorsa commestibile.”
Pensate che, quello che oggi chiamiamo foraging, in origine si diceva alimurgia, ovvero la scienza di alimentarsi di piante selvatiche in condizioni di urgenza (alim-urgia). Per la verità si trattava di un’esperienza che i contadini praticavano regolarmente, non solo quando costretti dall’emergenza, e questo rapporto con il mondo vegetale definisce in modo profondo l’identità culturale italiana.
Nella tradizione del nostro paese, una delle caratteristiche distintive dell’alta cucina - difficilmente riscontrabile altrove - è che fin dal XIV-XV secolo, quando appaiono i primi ricettari, sono frequenti i rimandi alla cultura popolare. La cucina francese, per dirne una, si è sviluppata ed è diventata grande alla corte del re, mentre a caratterizzare anche l’alta cucina italiana ci sarà sempre quello che Montanari definisce “un retrogusto contadino”. E’ proprio in questa matrice culinaria che nasce la metafora che attribuiamo al gusto amaro.
Il cibo è memoria storica per eccellenza e in un’ottica di preservazione, tipica della natura umana, tendiamo a lasciare andare ciò che la nostra mente, anche inconsciamente, associa a concetti negativi.
Ho ben presente il tono dispregiativo con cui mia nonna ha commentato i tuberi che mi ha vista cucinare e osannare, li ha definiti “rave” (termine dialettale per dire rape). Era il cibo dei poveri, della guerra, quello che, raggiunto un tempo di ritrovato benessere, le persone di quella generazione non hanno più voluto vedere.
Ci troviamo qui di fronte ad un duplice scenario, da un parte lo sviluppo di un vocabolario che associa all’amaro sensazioni ed emozioni poco felici, dall’altra la perdita di un patrimonio vegetale che questa stessa origine ha provocato. Ecco il motivo principale per cui abbiamo smesso di conoscere e cucinare, barbabietole, rape, pastinaca, sedani rapa, rutabaga (che persino il correttore automatico mi segna come errore, tanto è sparita dal nostro vocabolario): erano le verdure dei poveri, quelle che crescevano sotto terra e resistevano a lungo, quelle invernali che riempivano gli stomaci nei mesi in cui le dispense non erano così ricche e abbondanti.
Ho scritto questa newsletter di getto, per sbollire la rabbia che quella telefonata di cui racconto all’inizio mi ha provocato ed è stato in un certo senso terapeutico iniziare a battere sulla tastiera e arrivare fino a qui.
Non ho risolto nulla, certo, ma quel gusto che sentivo amaro è diventato interessante, o forse scavare nella motivazione etimologica mi ha portata ad abbonirmi per questo modo di dire, perché nel riscatto di quelle verdure amare si concentra tanto della mia ricerca e della missione di divulgarne l’uso.
E credetemi, non è un vezzo da cuochi sofisticati, in quelle verdure dimenticate e poco appariscenti si racchiude la ricchezza della biodiversità da cui ci siamo allontanati, che è risposta a infinite problematiche ambientali e agricole dei nostri tempi, ahimè disastrati.
Per cui la prossima volta che incontrerete al mercato o al fruttivendolo delle radici bianche di cui non conoscete il nome, chiedete spiegazioni, o se l’occhio vi cade su qualche tubero meno invitante dei turgidi peperoni colorati, dategli una possibilità e ora che la primavera sta sbocciando, non riempite i frigoriferi solo di zucchine e di piselli freschi, usate anche il tarassaco e le erbe di campo locali che ripassate in padella con uno spicchio di aglio sono deliziose, comprate le barbabietole che sono un piacere per il palato e per gli occhi con il loro color rubino scuro, sono buone crude, cotte, bollite, al forno, le potete usare in insalata, farci un a crema e condire gli spaghetti, potete abbinarci le fragole e perfino gli asparagi! Assaggiate i lampascioni se vi capita l’occasione, cipolle selvatiche amarissime conservate generalmente sottaceto; preparatevi un’insalata con il cicorino di campo e aggiungete della frutta dolce a contrasto e riscoprite il piacere di un piatto di fave crude e pecorino, uno dei pilastri della cucina casereccia laziale.
Ma, direte voi, cosa c’è di comfort in tutto questo? In effetti forse niente, se non che alle giornate amare ci si fa, tutto sommato, l’abitudine e soprattutto è confortante ricordarsi che passano sempre, in un modo o nell’altro.
E poi - e qui vi svelo un piccolo segreto - c’è un ingrediente dolce-amaro che è in grado di risollevare e rendere speciale tante pietanze: si tratta del cotto di fichi o mosto cotto d’uva (sono due cose diverse ma il sapore è abbastanza simile). Entrambi sono delle specie di glasse scure e dense ricavate dai fichi e dagli acini d’uva, dolci ma con un retrogusto amarognolo. Si usano prevalentemente per preparare dolci, ma si prestano perfettamente a preparare dei condimenti per le insalate o a cucinare e caramellare alcuni ortaggi amari.
Disponete dei ceppi di indivia rossa o del radicchio tagliati a metà su un foglio di carta da forno, irrorateli con un filo d’olio extravergine di oliva, un pizzico di sale e un cucchiaio abbondante di cotto di fichi. Infornate a 150 gradi per dieci minuti e…buon appetito. Vedrete che così anche il boccone più amaro avrà il suo perchè.
A presto,
Valentina
Sto leggendo il libro di Montanari anche io, e quando apprezzo queste radici che affondano nella cucina contadina. Io sono una grande amante del bergamotto, perfino la sua marmellata che profuma intensamente di Earl Grey adoro.
È bellissimo leggerti Valentina, spero che questa scrittura di getto ti abbia aiutata un po' a gestire l'amaro in bocca!
Vaaale a proposito di lampascioni, cosa mi hai fatto ricordare!! Erano credo 4 estati fa, ero fuori a bere con amici e amici di amici e mi stavo bevendo il bar e a un certo punto vado al bancone e di fianco a me c'era un losco figuro: un signore motociclista di quelli che sembrano cattivi, tutto vestito di pelle nera, pieno di tatuaggi. E cosa fa lui? Tira fuori dalla tasca un piccolo vasetto di lampascioni, che aveva fatto sua mamma, ovviamente from Puglia with love. Io, che ero già bella brilla, esclamo a gran voce "ohhhh i lampascioniiiii!!! Me li faceva sempre mia nonna", pugliese pure lei, ça va sans dire. Morale? Il motociclista, io e il barista a mangiare lampascioni sul bancone del bar 😎poi vabbeh radicchio amore, e tarassaco estasi pura, ma ggggiàsaii