I miei preferiti sono da sempre tonno e cipolline e prosciutto e carciofini.
I tramezzini a Venezia sono un’istituzione. Pane bianco o nero, rigorosamente senza crosta, ripieno a mò di panzerotto; non so se li avete presenti, ma i tramezzini a Venezia sono panciuti, gonfi di farcitura, sempre presenti a qualsiasi ora del giorno e della notte negli affollati bar della città.
Sono disposti in bellavista in vetrinette con scaffali di vetro che sembrano progettate proprio per questo. Sono perfetti per un pranzo veloce e gustoso, come boccone placa fame e come spuntino notturno quando si fa molto tardi. E badate bene, nonostante il loro carico di farcia, si mangiano in modo assolutamente pulito: il pane racchiude il ripieno appiccicoso, senza farne cadere nemmeno un pezzetto.
Ho iniziato a considerare un tramezzino una pietanza interessante solo quando ho messo piede a Venezia, il primo anno di università; prima, nella mia testa, c’erano tristi triangoli di pane molle spalmato di maionese e poco altro, che rimanevano nei vassoi alle feste di compleanno.
Venezia, oltre a dare un senso nuovo a quelo spuntino triangolare, è stata l’inizio di una fase meravigliosa della mia vita, quella della libertà e della cucina!
Il primo sembra un concetto ambizioso da dichiarare, eppure ho sentito questa dimensione prendere posto prepotentemente nella mia testa già dalla prima notte che ho passato tra le calli lagunari, nella prima camera del mio primo appartamento dell’età adulta. Era l’agosto 2004, alla vigilia dell’inizio dei corsi.
Non che i miei genitori non mi avessero lasciato l’autonomia di crescere ed esplorare il mondo, anzi, ma l’ebbrezza di non dover rendere conto a nessuno se non alla propria coscienza e al proprio buonsenso erano una sensazione nuova.
In casa ero da sola quella sera, gli altri coinquilini, più grandi di me, dovevano ancora rientrare dalla pausa estiva. Era una condizione ancora strana da gestire per me, la solitudine, così ho accettato ben volentieri l’invito a cena di un mio conoscente, un anno più grande di me, che aveva frequentato il mio stesso liceo. Ho cenato nel suo appartamento universitario, diverso dal mio eppure così uguale, assieme ai suoi coinquilini. Non ricordo la cena, stranamente, ma ricordo, come fosse ieri, il post cena. Abbiamo guardato un film, Bianco Rosso e Verdone, che io liceale appena cresciuta non avevo mai visto prima. Quando il film è finito era tardi, ma non ancora abbastanza per andare a casa; le chiacchiere hanno portato a scoprire che io no, non avevo mai dormito a Venezia prima di quel momento e che quindi, no, non avevo mai visto San Marco di notte. “Non hai mai visto San Marco di notte?” Ah beh, allora ci dobbiamo andare subito!
Mi ricordo di aver guardato l’orologio, era tardi. Ma in fondo non mi aspettava nessuno a casa, non dovevo nemmeno avvisare con un messaggio che avrei tardato più del previsto. Che sensazione nuova, quasi una vertigine.
E certo che volevo vedere San Marco di notte, visto che a quanto mi avevano trasmesso i loro sguardi sognanti e consapevoli, doveva essere uno spettacolo. Come non cogliere quell’occasione?! E così siamo usciti, eravamo 4 o 5, non ricordo bene, nel silenzio che solo chi conosce bene Venezia sa riconoscere; interrotto soltanto dal rumore dei passi sui masegni di pietra (la tipica pavimentazione della città). “Giriamo di qui che arriviamo dal lato migliore”; seguivo il mio gruppetto con passo disorientato in quell’incedere labirintico di calli, campi e fondamente e poi…si è aperto davanti aglio occhi uno degli spettacoli più magici che avessi mai visto. Piazza San Marco, deserta; con le luci delle Procuratie che la circondano specchiarsi a terra e creare un’atmosfera surreale. Senza parole, avevano ragione, era bellissima. E che potenza poterla avere tutta per noi.
Non sapevo in quel momento che negli anni a venire avrei sentito mia quella piazza in tante altre occasioni; anche una notte in cui, con l’acqua alta, mi sono accorta che forse, quel ragazzetto con il cappellino con la visiera e il sorriso sempre smagliante, era qualcuno che non volevo perdere. E in effetti non mi sbagliavo, quasi vent’anni dopo è ancora qui a scorrazzarmi attorno. Ma questa è davvero un’altra storia.
Quella notte, oltre a scoprire la magia notturna di quella città sospesa sull’acqua, assaggiai per la prima volta, i tramezzini veneziani; per di più in versione notturna! Proprio ai piedi del ponte di Rialto c’è un bar che vive due vite: quella delle orde di turisti, dei menu con le figure, dei prezzi diversi in piedi o al tavolo, della fila costante, quando il sole è alto; e quella degli studenti in cammino verso casa, la notte. “Mago Gi” si chiama, anche se credo questo sia il nome della sua versione notturna, molto probabilmente di fantasia; quello diurno non l’ho mai saputo. Sta di fatto che quella notte abbiamo aspettato il nostro turno a quella finestra aperta sulla fondamenta per ricevere i nostri tramezzini rigonfi di bontà. Il piacere di quei morsi notturni quando ti è tornata fame, tocca picchi di soddisfazione massima. Chi è complice, sa.
Forse è proprio quello il sapore della libertà? Un tramezzino a notte fonda ai piedi di uno dei ponti più celebri del mondo? Non lo so con certezza, ma sono abbastanza sicura sia stata una sensazione provata da tanti studenti e studentesse che come me hanno abitato, e tutt’ora abitano, piazze rinascimentali e deserte in tutta Italia, in lunghe notti di festa e bellezza.
Ho cominciato ad appassionarmi al cibo proprio in quegli anni universitari. Ho iniziato a preparare cene perché portava le persone a sedersi assieme attorno ad un grande tavolo; mi sono data alla sperimentazione dietro ai fornelli per quella gioia assolutamente inconfondibile di un boccone delizioso che ti pervade le papille gustative. Ho capito proprio in quegli anni che mangiare mi piaceva; non che prima non fosse così, ma sicuramente non avevo mai fatto caso a quanta soddisfazione mi desse conoscere una pietanza mai assaggiata. Provare sapori mi procurava godimento. Mi sono scoperta una mangiatrice curiosa e avventurosa.
Assaggiavo, cercavo di immagazzinare l’essenza del sapore e provavo a riprodurlo. Sulla qualità di quegli esperimenti si potrebbe disquisire a lungo; i tentativi erano del tutto amatoriali, molto spesso dal gusto sbilanciato, ma era bello quando soddisfavano le pance dei miei commensali altrettanto inesperti. Non è poi quello il fine ultimo di cucinare per gli altri se non renderli felici e appagati?
Mi ricordo tante serate in cui, in una delle tante case studentesche in cui ho abitato, portavamo il tavolo giù dal primo piano, fuori in calle, fino a posizionarlo al centro di una corte popolare ma trionfale come sono tanti campi veneziani nascosti. C’era un albero altissimo al centro, fatto abbastanza raro visto che nella maggior parte dei casi, i campi (le piazze di Venezia) sono sprovviste di vegetazione che invece si trova rigogliosa nei suoi giardini segreti. La tavola veniva imbandita sontuosamente - o almeno così ci appariva - con vecchie stoviglie scheggiate, bicchieri spaiati ma con tante candele accese e una bella tovaglia, rigorosamente senza orlo. Durante quelle cene sperimentavo il cibo condiviso da porre al centro del tavolo; tutto già pronto da accostare. Fatto di necessità, più che stilistico, perché sarebbe stato impossibile fare la strada tra il tavolo e la cucina più volte per servire una cena a portate.
La bellezza e l’atmosfera di quelle serate me la ricordo bene, la bontà dei piati forse meno, ma la sensazione di pancia piena e soddisfatta e quell’intrattenersi attorno alla tavola a piatti finiti mi rimandano ancora oggi sensazioni di piacere. Gli spagnoli la chiamano sobremesa: restare seduti a tavola, in buona compagnia, a cibo finito.
L’introduzione di un libro meraviglioso sulla cucina veneziana di Maria Teresa di Marco e Marie Cecile Ferré mi fa commuovere ogni volta che la leggo:
Venezia è un miracolo. Sorregge le sue fondamenta su pali di legno, chiude se stessa sulla misura stretta delle sue calli e insieme guarda al mare, all?oriente, all’altrove vicino e lontanissimo. La sua cucina le somiglia…è una cucina di acqua e di terra, concentrata sull’equilibrio delicato e perfetto delle sue lagune e del mare poco più in là. Attinge agli orti salmastri delle sue isole, alla riviera, alle valli, per secoli strade di acqua attraversate da merci quotidiane, eppure da sempre ha l’abitudine di sposare cucine lontane, di farle proprie amalgamandone gli aromi, i sapori e i saperi.
Tradizione ebraica, greca, ottomana, balcanica…e poi il baccalà che arriva da isole gelate e tempi remoti, “mantecato” con un’arte che perdura il sapore e l’essenza di una città che è un mondo sospeso, unico e irripetibile come solo i sogni più ostinati sanno essere.
Di quella città mi sono, e sono tutt’ora perdutamente innamorata; forse è stata proprio la sua cucina a infondermi quei primi granelli di passione, che ci misero tanti anni a germogliare, ma che sicuramente sono stati seminati in quegli anni spensierati e liberi. Nelle ricette della laguna ho intravisto libertà, voglia di viaggi, apertura verso culture diverse, accostamenti non scontati e ambizione al piacere. Tutto quello che anni dopo ho cercato di perseguire nella mia cucina.
Di recente, ho letto un articolo tanto interessante quanto inquietante sull’Inkiesta Gastronomika dal titolo: Lo stato della magrezza e il biohacking. Questo termine, sempre più di moda, mette insieme le parole bio – vita, e hack – controllo ed è un approccio di vita che vuole sostanzialmente “hackerare la biologia”, resettare il corpo per dare nuova linfa alla mente. Diete estreme, pillole cancella fame, integratori sostitutivi di pasti e farmaci per dimagrire sembrano essere l’ultima frontiera dell’ambizione per ostentare la ricchezza. Se storicamente la magrezza era associata ad una condizione di fatica e sforzo delle fasce meno abbienti, al giorno d’oggi lo scenario si è invertito. Obesità e malattie legate all’assunzione di cibo di scarsa qualità sono problemi di classi sociali poco istruite e con difficoltà economiche, mentre è in voga tra le celebrità ostentare magrezze ai limiti della patologia.
Ad essere patologico a dire la verità trovo sia l’ossessione della forma del corpo che si riscontra in una grossa fetta della popolazione occidentale.
Vedo troppe volte passare sui social concetti come “la prova costume” che il solo termine mi cigola in testa, “la palestra dopo l’abbuffata del weekend”, beveroni proteici sostituisci pasto, sensi di colpa e diete dimagranti.
Ma è davvero così importante la forma del corpo a discapito della gioia di una buona cena senza pensieri?
Escludendo questioni di salute, anche se ciò di cui si parla esula sulla questione, come è possibile che così tante persone si sentano private di quel piacere spensierato? Il motivo ovviamente lo conosciamo tutti. L’ossessione dell’immagine degli ultimi decenni è diventata sovrana di ogni ambizione, fine ultimo di troppe nostre azioni.
Come siamo arrivati a colpevolizzare uno dei piaceri più assoluti della vita?
Anzi, il colmo è che abbiamo iniziato a colpevolizzararlo proprio quando è diventato piacere. Fino più o meno al secondo dopoguerra cibo era, per la stragrande maggioranza della gente, necessità e fatica.
Il piacere del cibo è scoprire gusti nuovi, sapori che ti fanno mugugnare di godimento, è viaggiare per assaggiare culture differenti, è accostare ingredienti diversi creando armonia; il piacere di un pasto è trovarsi di fronte un piatto fumante e pensare solo a quanto è buono; è lasciarsi andare alle chiacchiere con i propri commensali, è godere della compagnia e dell’atmosfera che si crea attorno ad un tavolo.
Il piacere del cibo è completamente slegato dal senso di colpa.
Ve la ricordate la spesieratezza delle cene dell’infanzia? Dei panini caldi, dei tramezzini, delle pizzette a notte fonda? Quel leccarsi i baffi e le dita godurioso, quella sazietà soddisfatta di una pancia piena?
Comfort food è quello che mangi senza pensare alle calorie, alla dieta, ai sensi di colpa, alla prova costume.
Dobbiamo smettere di associare il cibo alla forma del corpo; far cadere ogni aggettivo, commento, pensiero di giudizio e discriminazione. Il cibo, se proprio vogliamo associarlo ad un pensiero quotidiano, è un privilegio.
Tutto qui.
E se qualcuno userà ancora il cavallo di battaglia salutista, rispondete che no, quella è legata alla scelta di cosa si mette sulla tavola, non al piacere di divorarla con gusto.
Qualche consiglio di lettura:
Nei vari numeri del mensile Cook, del Corriere della Sera, trovate tanti spunti molto interessanti sull’argomento. Sono tematiche molto care ad Angela Frenda, la poliedrica direttrice, che più volte ci ha portate a riflettere su questa dicotomia sbagliata e assolutamente da superare.
In Instagram seguite, se non lo fate già, Emiko Davies; adoro il modo in cui parla di cibo con le sue figlie: trasmette amore, gusto, piacere e spensierata leggerezza e non lo associa mai ad uno stigma fisico. E’ un tema di cui ha parlato più volte e lo spiega in modo così dolce e poetico nei suoi post, che vorresti solo sederti alla sua tavola, gustare le sue prelibatezze e sorridere.
P.S.
Lunedì è stato il mio compleanno, io l’ho celebrato, come sempre, prendendomi il giorno libero e dando alla giornata un’aura speciale fatta di piccole cose: una brioche alla mattina, la compagnia di Luca e dei miei bimbi, una passeggiata in montagna e un pranzo godurioso in una malga in quota, senza alcuna pretesa ma perfetto per quel momento.
Voi, se volete farmi un regalo, sedetevi a tavola con la spensieratezza di quando eravate bambini e bambine, gustatevi quella pastasciutta senza sensi di colpa, concedetevi quella sfiziosità a colazione senza pensare alle calorie. Il cibo, quando si ha la fortuna e il privilegio di poterlo mettere in tavola, è un piacere, non un vizio da eliminare!
Brava Valentina, 😘
Goduriosi come i tramezzini di mezzanotte, credo che ci siano soltanto ad una diversa latitudine in cui io risiedo, le piadine/panini kebab completi, con insalata, pomodoro, cipolla, salsa piccante, salsa allo yogurt e ovviamente carne. Caldi, sbrodolosi e buonissimi. E gira che ti rigira, orientali pure quelli! Quando a fine post dici "Il cibo, quando si ha la fortuna e il privilegio di poterlo mettere in tavola, è un piacere, non un vizio da eliminare!" hai taaaaaanta ragione, bisognerebbe esserne grati ogni giorno, anziché associarlo troppo spesso a sensi di colpa e cose negative. E' un vero peccato!