Ho incontrato Mischa a Parigi, una vita fa, in Erasmus.
Ci siamo trovati seduti una dietro all’altro al corso di francese per stranieri offerto dall’università, piccolo dettaglio, lui, altissimo, biondissimo e olandesissimo era seduto davanti a me, che per chi non lo sapesse sono di statura che ho sempre definito media, ma che a dire la verità sta un po’ al di sotto. Abbiamo riso, ci siamo invertiti di posto ed è nata un’amicizia che dura da quasi vent’anni.
Ci siamo rincorsi e incontrati in giro per l’Europa per qualche anno post Parigi fino a che, di fronte alla mia indecisione nordeuropea sul luogo in cui fare il mio primo tirocinio postlaurea, Mischa si è seduto sul piatto della bilancia di Amsterdam e mi ha influenzata nella scelta di inviare cv tra mulini e canali. E così in un freddissimo novembre 2010 sono sbarcata ad Amsterdam con una valigia chiaramente fuori dimensione, soprattutto per essere trascinata in bicicletta quando Mischa ha incontrato me e Luca fuori dal suo ufficio del tempo, per accompagnarci a casa sua, dove ci ospitava per l’inizio di quell’avventura. Quella stessa sera siamo andati insieme a lui alla festa di laurea di una sua amica, in un palazzo del vecchio porto di Amsterdam, op de deerde verdiepping (al terzo piano) la prima parola o meglio, sequenza di parole olandesi, che ho imparato. Pioveva, tanto per farci capire da subito come stavano le cose, siamo andati, ovviamente, in bicicletta, con gli impermeabili zuppi, velocissimi. Luca su una bici prestata, io seduta sul portapacchi della bici di Mischa a gambe laterali, come si usa in Olanda per saltare giù comodamente, all’occorrenza.
I ricordi di quelle prime settimane sono confusi e lontani, ma ricordo perfettamente una sera in cui, un’altra amica olandese, ha dato appuntamento a me e Luca in un ristorante Thailandese, per mangiare qualcosa prima di un concerto. Era un luogo così curioso e nuovo per la me di allora, minuscolo, ci si stringeva su panche scomode in tavoloni troppo affollati e troppo vicini tra di loro. Era molto caldo all’interno, i vetri appannati. Appena qualcuno entrava iniziava a togliersi i mille strati di giacche, sciarpe, maglioni che proteggevano dal gelo esterno. La cucina aperta e altrettanto minuscola faceva uscire a velocità sorprendente zuppe fumanti, noodles e ciotole di riso. Ho ordinato una zuppa Tom Yan Khai e una ciotola di riso con verdure al curry rosso; era un cibo che non conoscevo, molto diverso dai cinesi che si trovavano all’epoca in Italia o dalle cucine nordafricane in cui mi ero trovata spesso nel mio tempo parigino. Era piccante. Estremamente piccante. Cosi piccante che ricordo di non essere riuscita a finire quella zuppa dal sapore delizioso, eppure immangiabile per me.
Non sapevamo quella sera che quel posto così sconosciuto al tempo, sarebbe stato a due passi da quella che avremmo chiamato casa per i successivi 13 anni. La Tom Yan Khai è diventato il mio comfort food per eccellenza ad Amsterdam, quello che ordinavo almeno una volta in settimana, quando non avevo voglia di cucinare, la prima cosa che cercavo al ritorno da un viaggio, la ricetta a cui mi ispiro la maggior parte delle volte che preparo una zuppa a casa, anche quelle così confortanti che mi sono dedicata dopo la nascita dei miei bambini. La Tom Yan khai è diventata il piatto che ho imparato a finire, a gustare, fino a non ricordarmi più quella sensazione di piccante estremo che avevo provato all’inizio. Un cibo che prima era esotico, altro da me, è diventato il mio ristoro, gusto sicuro e confortante.
La sensazione di comfort è sicuramente legata alla dimensione della casa, del luogo in cui ci sentiamo al sicuro.
Continuo ad inciampare in una frase ultimamente, forse sarà capitato anche a voi di leggerla: “casa è dove cessano i tuoi tentativi di fuga”. La leggo e la rileggo, mi capita di pensarci durante il giorno e non sono ancora riuscita a capirla del tutto. Forse non riesco semplicemente a sentirla mia. Mi fermo alla prima parola, casa, così singolare in quella frase e mi chiedo, persa nei miei pensieri:
abbiamo davvero una sola casa dalla quale non vogliamo fuggire?
O forse si possono avere più case contemporaneamente?
Credo, almeno la mia esperienza me lo insegna, che ci siano tante case, pensandoci bene, ognuno di noi ne ha più di una. C’è quella dove abitiamo, quella della nostra famiglia d’origine che forse sentiamo ancora casa, o forse ci sentiamo a casa da un amico o amica speciale, ci sentiamo a casa al mare, o in montagna; alcuni si sentono a casa in un camper, o in tenda, o semplicemente all’aria aperta in un posto conosciuto e caro.
Forse attribuiamo ad un posto l’appellativo di casa proprio quando gli associamo delle situazioni di comfort, delle certezze che si tratti di emozioni, di cibo o di qualcos’altro. Pensandoci bene, se dovessi riformulare la mia definizione di casa direi:
casa è dove ritrovo i miei elementi di comfort.
Che poi, badiamo bene, una persona li può trovare con uno zaino in spalla e un biglietto di sola andata, non servono necessariamente mura e un tetto sopra la testa.
Sono in un periodo della mia vita in cui i concetti di casa e di comfort continuano a circolarmi in testa, a ritornare, ad ingarbugliarsi e poi a tratti, forse, mi sembra di riuscire a sbrogliare la matassa.
Casa negli ultimi 13 anni è stata un luogo in cui sono arrivata da straniera e un passo alla volta ho conquistato, mi ha conquistata e accolta. Amsterdam è stato senza dubbio il posto in cui ho vissuto (consapevolmente) per il periodo più lungo della mia vita. A rendere tutto ancora più intenso si è aggiunto il fatto che per 13 anni abbia abitato nella stessa casa, nella stessa via, nello stesso quartiere. Ci si sente a casa ad andare nel caffè dove ci conoscono e ci salutano anche quando non ci fermiamo, ci si sente a casa al panettiere che frequentiamo ogni giorno, alla bancarella del mercato in cui ogni sabato mattina facevamo la spesa. Ci si sente a casa anche a cambiare strada per non incontrare il vicino antipatico, a parcheggiare la bicicletta sempre nel solito posto, che quando è occupato è un po’ come se qualcuno avesse violato i nostri confini.
Da qualche mese sono tornata a casa, in Italia, nel luogo in cui sono cresciuta, in cui ho abitato prima di salpare alla volta del mondo. Se devo essere onesta, fino a qualche mese prima di prendere questa decisione, mai avrei pensato che avrei preso in considerazione questo luogo per venirci a vivere. Invece allineando una serie di necessità e requisiti, questo risultava essere proprio il posto perfetto per questo periodo della vita. Noto con stupore quando qualcuno, con leggerezza e senza malignità, ci mancherebbe, si stupisce di fronte a questa scelta oppure la percepisce come un passo indietro. Ne parlavo anche con alcune persone che stanno vivendo la mia stessa rivoluzione e sono rientrate in Italia dopo tanti anni all’estero e ricevono gli stessi commenti.
Le parole perfette le ho trovate in un post di Liria Valenti che un’amica mi ha invitato a leggere: le cito letteralmente perché il concetto non può essere espresso meglio di così!
“Scegliere significa anche mettere in conto la possibilità di perdere qualcosa che ci piace per lasciare spazio ad altro che in quel momento valutiamo essere più importante, protettivo, realistico. Il punto è farlo consapevolmente, e qui la faccenda spesso si complica. Perché a volte noi persone confondiamo la consapevolezza con il piacere. Così, ci aspettiamo che le scelte consapevoli siano per forza anche piacevoli, e in quest’ottica può risultare difficile scegliere qualcosa che magari risponde a un nostro bisogno, ma non (sempre) anche a un nostro desiderio.
Di contro, in molte narrazioni le scelte consapevoli sono quelle razionali, di testa, a cui spesso si arriva mettendo da parte le scelte di pancia, quelle impulsive, “fatte con il cuore”. Ma consapevolezza non è tagliare fuori delle parti di noi, piuttosto farle entrare, conoscerle, integrarle tra loro.”
Liria Valenti
Partendo dal fatto che la Tom Yan Khai mi manca da morire, così come tutte le persone che sono diventate famiglia, che mi manca la città, l’energia, il colore, la libertà, i parchi gioco, le piste ciclabili di Amsterdam, la sua luce e la sua atmosfera, nonostante questo abbiamo scelto di lasciarla consapevolmente e siamo assolutamente convinti non potremmo essere in alcun altro posto in questo esatto momento della nostra vita. Abbiamo messo da parte qualcosa che ci piaceva, che ci piace ancora, per lasciare spazio ad altro che adesso era priorità per noi : una casa grande, un progetto ambizioso, la natura attorno, i nonni vicini, la possibilità di coltivare dei contatti lavorativi che altrimenti avremmo lasciato da parte, la facilità di viaggiare da soli, insieme, tutti insieme da qui.
Forse il comfort in questa nuova realtà non l’abbiamo ancora trovato, non abbiamo ancora il nostro bar di riferimento in cui darci un appuntamento per un caffè, cambiamo continuamente luogo dove fare la spesa e stiamo ancora provando tutte le bancarelle del mercato; ci stiamo ancora crogiolando nei sapori confortanti della vita precedente e ci sembra tutto ancora estremamente piccante, a volte piccantissimo.
Ma ho imparato, in tutte le vite, e case, che ho vissuto che ogni posto sconosciuto dopo un po’ ci abbraccia e ci offre le sicurezze che cerchiamo. Ho trovato il mio bar, il panificio, il banco del mercato di fiducia a Venezia, a Milano, a Parigi, a New York, a Villeneuve Les Avignon, a Montepulciano. Sono certa li troverò anche a Rovereto, basta darsi un po’ di tempo per far abituare le papille a questo gusto nuovo.
Post Scriptum
Gli ingredienti per preparare la Tom Yan Khai si possono reperire in negozi asiatici, si conservano a lungo quindi se ne può fare, in un certo senso, un po’ di scorta:
Per due persone io uso:
4 tazze di acqua
1 stelo di citronella (Lemon Grass)
1 radice di galangal (anche detto zenzero Thailandese)
3 foglie di lime
4 cucchiai di salsa di pesce (Fish sauce)
2 cucchiaini di pasta di peperoncino (chile paste)
una manciata di pomodorini freschi
1 petto di pollo tagliato a striscione (opzionale, io quasi sempre lo ometto)
4 cucchiai di succo di lime
2 peperoncini piccanti Thai
Porta l'acqua a ebollizione in una pentola. Aggiungi citronella, il galangal e foglie di lime. Cuoci per 1 minuto. Aggiungi la salsa di pesce e cuoci per 1 minuto. Aggiungi il peperoncino e riduci il fuoco a medio. Aggiungi i pomodori e cuoci per 2-3 minuti. Aggiungi i funghi e cuoci per 1 minuto. Ravviva il fuoco e aggiungi il pollo. Cuoci, mescolando di tanto in tanto, finché il pollo non è cotto, circa 5 minuti. Aggiungi il succo di lime e mescola.
Infine aggiungi i peperoncini tagliati a metà.
C’è un ingrediente che non viene necessariamente riportato nelle ricette della Tom Yan Khai ma a mio parere è assolutamente necessario, e ahimè non si conserva a lungo: è il coriandolo fresco. Più facile a dirsi che a trovarsi: nella provincia italiana è più probabile imbattersi in un asino viola che in un mazzetto di coriandolo fresco, mi confermerete tutti voi che non abitate a Milano o a Roma. Certo, l’ho seminato, ma sono ancora in attesa dei tempi nei quali la natura mi regalerà quelle foglioline simili al prezzemolo, ma dal sapore unico e irriproducibile che tante persone non tollerano nel modo più assoluto.
Se ti piace, invece, capirai che è uno di quei sapori, prepotenti e ambigui, che creano una certa dipendenza e di cui non si riesce a fare a meno in alcuni piatti. La mancanza ne genera nostalgia e, anche se in questo periodo è un sentimento con il quale vado spesso a braccetto, non mi ci vorrei abituare.
L’ho cercato, ovunque, in ogni supermercato, in ogni bottega, ma aihmè a Rovereto non c’è. Fino a quando, ho prestato più attenzione a quello che avevo attorno, e ho notato un negozio gestito da Pakistani, proprio a due minuti da casa. Sono entrata perché ho visto dell’aneto tra le verdure (di questo sapore parleremo un’altra volta) e chiedendo dell’amato coriandolo mi ha assicurato di non essere mai senza, lo tiene dietro, dove è più fresco perché non si sciupi. Ho avuto la sensazione di aver ricevuto un piccolo regalo mentre rientravo con il mio mazzetto in borsa, come aver risolto un minuscolo tassello di questo quadro complesso di nuove abitudini.
Un passo alla volta, un sapore alla volta.
Se vi state chiedendo che ne è stato di Mischa, non temete, ho avuto il privilegio di sperimentare che le amicizie belle scavalcano montagne e distanze che sembano incolmabili, e che appena ci si trova sembra non essere passato il tempo.
Io su questo nuovo piccante ci sto ancora lavorando, gli amici invece sono il nostro comfort ingredient anche in una zuppa mai assaggiata e me lo ricordo ogni giorno.
A preso,
Valentina
Bellissima anche questa newsletter Valentina
Ti ascolto sempre, perché la tua voce dona un tocco in più alle tue parole che già mi fanno viaggiare con la mente e le immagini.
Questa storia di cambiamenti, case e vite mi risuonano tantissimo ✨
Cara Vale,
incredibile come anche in questa puntata della tua newsletter ci sia qualcosa di mio. Amo il piccante, non quello ahimè del coriandolo che invece un po' odio, ma quello del peperoncino. Vivo a Milano da 6 anni e mezzo, e nella casa in affitto i coinquilini passati mi lasciarono 4 cose: un rotolo di carta igienica, la loro pesciolina Cecilia, una scatola di sale grosso e una bustina (già aperta) di peperoncini secchi piccantissimi dal Malawi. Una bustina microscopica, grande come quella dei pinoli, per intenderci, ma zeppa di questi cosini mortali. Sono 6 anni e mezzo che sta bustina ancora non è finita, e chissà quanti anni ha! Ma niente, nè basta uno nel brodo o nelle verdure per spalancare "le porte della percezione", come diceva Jim Morrison. Amazon li chiama "occhi d'uccello del Malawi", se per caso li volessi cercare! Un abbraccio grande, Vale